Il più dolce tra gli zuccheri: limiti ed evidenze della polemica sul fruttosio

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In campo alimentare conviene sempre saper distinguere ciò che attiene alla produzione industriale e alla politica e ciò che invece investe direttamente la nutrizione dal punto di vista squisitamente fisiologico.

Questo non significa che determinate abitudini alimentari non possano essere messe in discussione, in primo luogo grazie alla ricerca scientifica che ci permette di conoscere sempre meglio le funzioni metaboliche del corpo umano e le sue interazioni con i nutrienti assunti grazie al cibo.

Ma per seguire le evoluzioni della conoscenza scientifica lo chef dovrà appunto saper distinguere l’evidenza frutto della ricerca dalle polemiche pubbliche che circondano determinati temi, e che in qualche misura possono contribuire ad offuscare l’opinione di consumatori e ristoratori su benefici o rischi dei singoli prodotti alimentari portati sul mercato – anche – dall’industria alimentare ai suoi vari livelli.

Un caso emblematico per questo genere di distopia riguarda probabilmente il fruttosio, il monosaccaride semplice che quasi sempre nella nostra cultura gastronomica mediterranea viene associato – a ragione – con la frutta.

Per capire davvero come nasce la polemica pubblica sul fruttosio occorre confrontare ciò che la scienza ha scoperto – a partire dalla prima commercializzazione del fruttosio come zucchero isolato industrialmente a partire dagli anni ’70 del secolo scorso – con quella che è stata l’azione dell’industria alimentare, che ha ovviamente interessi di tipo economico e che si muove e si organizza in rapporto alle risorse effettivamente disponibili e a prescindere dai risvolti nutrizionali che il consumo di massa di determinati alimenti può generare.

Stiamo parlando di una vera e propria battaglia pubblica che si svolge prevalentemente negli Stati Uniti, dove una parte sempre più rilevante degli scienziati che si occupano di nutrizione (soprattutto medici e ricercatori) hanno ingaggiato negli ultimi anni una vera e propria lotta contro le lobby agricole connesse agli stati della Corn Belt (ovvero Iowa, Illinois, Indiana, Ohio e gli altri stati limitrofi nella zona del Midwest), forti produttrici di mais e quindi principale fonte di fruttosio industriale del paese.

Per inquadrare la polemica è necessario ripercorre, sia pur sinteticamente, le fasi che hanno caratterizzato la diffusione del fruttosio come zucchero commerciale e le evidenze scientifiche che al contrario sono emerse successivamente.

High Fructose Corn Syrup, lo sciroppo al centro della polemica

Le eccedenze di mais prodotte dagli stati centrali degli Stati Uniti, sostenuti anche da forti sussidi pubblici, hanno reso possibile già nell’immediato dopoguerra la lavorazione del mais su scala industriale permettendo di porre le basi economiche per la sua trasformazione in un fattore primo dell’intera catena produttiva dell’industria alimentare americana, ovvero lo zucchero sotto forma di fruttosio.

Il fruttosio derivato dal mais non deriva direttamente dagli zuccheri originari contenuti nella pianta, ma piuttosto dalla successiva isomerizzazione del glucosio di cui è composto l’amido di mais.

Questo processo di lavorazione dell’amido di mais genera il noto High Fructose Corn Syrup, ovvero uno sciroppo concentrato che è costituito al 60% da fruttosio.

Stiamo parlando di un elemento chiave della produzione alimentare statunitense, se solo pensiamo che l’High Fructose Corn Syrup è lo zucchero che viene addizionato alle bevande gassate, come la Coca Cola o la Pepsi, e a buona parte dei cibi preconfezionati di origine industriale, come i cereali per la prima colazione e quasi tutte le merende dolci.

Gli attivisti anti-fruttosio propongono due principali contestazioni all’industria alimentare in merito all’utilizzo dell’High Fructose Corn Syrup nel cibo.

Una prima critica riguarda in linea generale la scelta di addizionare lo zucchero agli alimenti processati industrialmente, perché evidentemente tale operazione viene eseguita per rendere i cibi più apppetibili al gusto senza tenere in conto dei rischi connessi alla probabilità di veder levitare l’introito calorico medio assunto dai consumatori, che infatti negli Stati Uniti sono soggetti ad una vera e propria epidemia di casi di obesità – anche infantile – che grava non poco sulla salute e sulle finanze pubbliche.

Non per nulla i maggiori scienziati coinvolti nella polemica contro l’High Fructose Corn Syrup sono proprio quei medici e quei ricercatori che si occupano direttamente della lotta all’obesità negli Usa.

La seconda contestazione contro lo zucchero derivato dal mais investe direttamente il fruttosio, invece, e trae la sua origine dalle più recenti scoperte fatte sulla sua metabolizzazione all’interno dell’organismo umano.

Anche se la biochimica è molto più complicata, in realtà, è possibile semplificare la questione affermando che il fruttosio, a differenza del glucosio, ha difficoltà nell’esser captato dal tessuto muscolare per trasformarsi in glicogeno, mentre invece si rende facilmente disponibile per l’accumulazione nella riserva glucidica stoccata dal fegato.

Non ci sarebbe nulla di male, di per sé, se non fosse che nel contesto della maggior parte della popolazione occidentale – tendenzialmente sedentaria e sottoposta ad un regime di tipo ipercalorico vita natural durante – tale scorta glucidica del fegato è quasi sempre satura.

Ecco come si arriva all’ultima semplificazione proposta dagli attivisti anti-fruttosio: l’High Fructose Corn Syrup è deleterio perché il fruttosio dà vita facilmente a fenomeni di lipogenesi. In parole povere l’eccesso di zucchero accumulato nel fegato porta alla creazione di nuove riserve di tessuto adiposo; il fruttosio fa ingrassare, insomma.

Ovviamente la risposta data dall’industria alimentare americana è pur sempre parzialmente valida e scientificamente inappuntabile: la vita sedentaria e il regime alimentare ipercalorico sono i responsabili dell’aumento di peso della popolazione, e non tanto la presenza specifica di un singolo macronutriente come il fruttosio, che di per sé è uno zucchero semplice che vale – caloricamente – come qualsiasi altro carboidrato.

D’altra parte in questa sede non può interessarci più di tanto il ruolo dell’industria di trasformazione del cibo, dove appunto l’High Fructose Corn Syrup svolge certamente una funzione di addittivo calorico da considerare dal punto di vista della bilancia metabolica dell’individuo che consuma cibi confezionati.

Per uno chef vale però la pena di considerare che la riscoperta degli alimenti freschi (il ‘raw food’, negli Usa) nella cultura gastronomica del ceto medio occidentale viene alimentata anche da questo genere di polemiche pubbliche, che come si è visto coinvolgono diverse parti in causa ma che poi riguardano in definitiva l’intero insieme dei consumatori.

Per uno chef può essere importante saper distinguere – più di ogni altra cosa – quelle che sono semplificazioni frutto delle polemiche da quelli che invece devono essere i risvolti nutrizionali realmente spendibili nella pratica gastronomica di tutti i giorni.

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